Le elezioni per il Parlamento Europeo non hanno stravolto e non stravolgeranno l’Ue e l’Europa tutta. Per tre motivi.
Primo, non ne hanno la possibilità. L’assemblea è dotata di molti meno poteri di quanti ne abbiano i vari parlamenti nazionali entro i rispettivi confini. Peraltro, almeno dal 2011 i singoli Stati membri hanno guadagnato parecchia influenza sul processo decisionale dell’Unione. E ne guadagneranno altrettanta, visto il calo delle famiglie tradizionali di partiti e la difficoltà a formare chiare maggioranze.
Secondo, l’ascesa dei nazionalisti è stata inferiore alle attese, confinata a circa un terzo/un quarto dei voti e dei seggi totali. E comunque del tutto disomogenea, dunque non in grado di dar vita a una coalizione compatta tale da minare l’Ue dall’interno. Al di là della retorica obbligata e delle inevitabili eccezioni, gli eurofobi fanno ampio uso delle stanze brussellesi per l’interesse proprio o del proprio paese.
Terzo, l’elezione del Parlamento Europeo in particolare è interpretata dagli stessi attori come un insieme di sondaggi sulla propria popolarità in patria. Fotografa la realtà, più che crearla. Anche quando avvicina – non determina – crisi di governo (Grecia e Italia) o incide sull’esecutivo in formazione (Spagna e Regno Unito). Dalle urne non è uscito niente sui partiti europei di cui già non fossimo a conoscenza. La piazza francese si è ribellata a Macron. La Spagna ancora premia l’establishment contro le forze estremiste. Il sistema partitico britannico è nel caos e incapace di rappresentare il paese. Polacchi e ungheresi gradiscono la strategia dei propri governi: prendi i soldi e scappa.
Inutile dunque aspettarsi svolte geopolitiche. Queste elezioni non hanno detto nulla sul posizionamento dei paesi europei nei confronti della competizione fra le tre grandi potenze mondiali (Usa, Cina, Russia) sul nostro continente, decisivo per gli equilibri mondiali. Però sottolineano alcune tendenze strategiche rilevanti interne all’Ue. Ne evidenziamo tre.
Il successo del Brexit Party, abbinato a una maggiore assertività del futuro primo ministro britannico (chiunque sia), indurirà la posizione del Regno Unito nei negoziati sul divorzio da Bruxelles. Un’uscita senza un accordo (hard Brexit) è più probabile. Al contempo, Londra è riuscita a mantenere un piede nell’Ue, ne influenzerà le imminenti nomine e ne orienterà l’approccio, contrastando le preferenze franco-tedesche per aumentare il centralismo e il dirigismo in certi dossier.
Inoltre, non bisogna attendersi che la Germania smorzi l’enfasi sull’austerità. Nessuna delle forze politiche maggioritarie è propensa ad allentare il rigorismo fiscale e quella sul bilancio è probabilmente l’unica influenza concreta di cui il Parlamento dispone.
Infine il successo dei Verdi, in particolare nell’Europa settentrionale e nella stessa Germania, incentiverà il già avviato cammino dell’Ue verso un paniere energetico più sostenibile e diversificato. Ciò non intaccherà il progetto russo-tedesco di Nord Stream 2, ma potrebbe ridurre l’entusiasmo per il gnl americano e accrescere l’ostilità verso la Cina.